Nel 1429 Brunelleschi era un architetto esperto. Aveva 52 anni. Aveva costruito chiese, ospedali e cappelle, oltre all’essere un abile scultore e un mirabile orafo. Da nove anni dirigeva il rutilante cantiere della costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore, circondato da scettici, da un’intera città di scettici, e da un drappello di fedelissimi assistenti. Brunelleschi non era soddisfatto: girando per Firenze inciampava continuamente in edifici e cantieri che aveva progettato in fretta, a memoria, e che si erano materializzati prima che fossero completi. Non era soddisfatto ancorchè gli sfuggiva qualcosa, c’era un nocciolo della questione che era buio: la colonna, la parasta, la vela, l’arco. La Colonna, la Parasta, l’Arco, la Vela, la Cupola.
Brunelleschi era andato due anni a Roma, aveva venticinque anni. Era gia’ un artista di successo, nelle arti orafe e scultoree. Era andato a Roma e aveva visto. Erano passati quasi mille anni, ma la maesta’ di quelle pietre era ancora intatta. Decaduta, abbandonata, corrosa, interrata, Roma era spopolata e disseminata di antichita’ che lentamente affondavano dentro la polvere del tempo. Ma ancora non era iniziato quel processo di rapina che ha spogliato le vestigia romane per la imponente ricostruzione rinascimentale. Aveva visto colonne, paraste, capitelli, archi, vele, volte, cupole. Aveva visto anche palazzi e strutture straordinarie, ma alla fine tutto si riduceva sempre a colonne, paraste, archi, capitelli, vele, cupole. Brunelleschi aveva riprodotto e declinato gli elementi in molte occasioni e sfruttato tutte le volte che la committenza era disponibile, ma ancora non era soddisfatto. Nessuna delle opere che aveva costruito aveva la capacita’ di completare e riassumere. Alcune, imponenti, sfioravano l’obiettivo e Brunelleschi non tollerava che non venisse centrato l’obiettivo, in pieno.
Sono passati venticinque anni da quel soggiorno a Roma, quei due anni meravigliosi, e i frati francescani di Santa Croce gli hanno chiesto di costruire una nuova sala capitolare, all’estremo della corte a lato della basilica. Venticinque lunghissimi anni, Roma sembra lontanissima e fragile. E ora la Sala del Capitolo, e per i francescani perdipiu’. E’ l’incarico più ambizioso e di prestigio che potrebbe immaginarsi e avra’ buon gioco a condurre i teneri fraticelli a condividere le sue opinioni: semplicita’, ecco la parola da spendere – no, fratello abate, non mancheranno decori, accennati a policromo e i mastri della Robbia sono gia’ al lavoro su certi tondi da cui ammiccano i santi protettori – semplicita’ che deve concludere, declamare, salmodiare la meravigliosa magia dello spazio vuoto.
Quattro anni per progettare una stanza, tre porte, quattro finestre. All’esterno, quella meravigliosa rappresentazione del rudere romano riadattato, dall’aria profana, all’interno il cosmo, il kosmos che dichiara l’armonia. Nella pianta qualcosa canta di un ritorno alle origini, del mito di un passato scintillante, di una forma arcaica e primordiale, perfetta, di una comunicazione semplice. Semplicita’, ecco la parola da spendere. Colonne, paraste, archi, capitelli, vele, cupole: due elementi li usa per il pronao, le colonne e le vele. Paraste e capitello fan tutt’uno. Dal processo di semplificazione si distillano paraste, archi e cupole. A Brunelleschi ci vollero quattro anni per progettare la Sala Capitolare e ancora c’era sempre qualcosa che gli sfuggiva. Lui sapeva che il progetto era perfetto, ma che non riuscisse a venire a capo di quella imperfezione non se lo perdonava. Il progetto era perfetto con quella imperfezione, di questo si convinse, tradito dalla memoria, e questo volle che venisse costruito. Lo dobbiamo alla fedelta’ dei suoi successori al cantiere se quarant’anni dopo la Cappella divenuta alla famiglia Pazzi verra’ completata come voluto dal maestro.
Il “problema dell’angolo” fu risolto nel 1519 da Antonio da Sangallo il Vecchio, nella Chiesa di S.Biagio a Montepulciano